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UNO STRANIERO NEL PROPRIO SOGNO

 

 

Chi ha detto che i sogni sono una cosa bella. Forse nelle vite degli altri, non nella mia. Sento un'amarezza nel mio cuore talmente densa che nulla riuscirà ad eliminarla. Mi rendo conto solo adesso di essere stato ingannato da sempre. Tutti i valori che per l'intera vita mi sono stati propinati non hanno nessun significato. Lo studio per poi avere una bella famiglia, un bel lavoro che ti permetta l'agio del benessere, essere una persona “rispettabile”. Ma quale lavoro, quale famiglia? Non ho ne un lavoro ma solo un'occupazione da schiavo e non potrò mai avere una famiglia dati i miei gusti sessuali. 

Più che ammetterlo te lo devo dire e scrivere, così papà questa volta non potrà voltare la faccia dall'altra parte: sono fuggito da voi, dal mio paese tradendo l'amore che ho per esso solo per tentare di essere libero, lontano dalle limitazioni culturali di un popolo che non mi ha permesso di essere me stesso. Un popolo che ancora amo e sento mio, che mi dona l'unico vago e fievole sentimento positivo che ancora avverto dentro me. Ma non potrei mai tornare, non avrei la forza di reggere ancora tutte quelle umiliazioni, tutte le prese in giro dei bambini, degli adulti, di mio padre. Sono stanco, sento tutte quelle stupide offese risuonarmi nella mente e per quanto beva e mi ubriachi non se ne vanno mai, nemmeno quando barcollo con le spalle al muro.

Madre, la verità è che sono fuggito per essere libero di amare, anche fisicamente, le persone del mio stesso sesso e non per fare carriera, per diventare un grande architetto, il primo grande architetto egiziano d'Italia, per avere successo nella patria del bello e del design. So che questo lo sai ma ho bisogno di scriverlo e vederlo scritto, per essere sicuro di lasciare una testimonianza della mia sofferenza.

Le troppe umiliazioni ti si appiccicano addosso e ti trascinano in fondo.

Pensavo che a Milano avrei trovato una maggiore comprensione e accettazione. Certo, tutti accettano che io sia gay ma in realtà questo aspetto lo giocano a loro favore, soprattutto se sei straniero. Ti fanno credere che è una caratteristica apprezzata nell'ambiente dell'architettura e così è, ma nascondono la vera finalità: quella di essere un oggetto di piacere da utilizzare per poi ricattarti. La regola é facile quanto spietata: o ci stai oppure sei out.

Quando capisci che tutto ruota in questo modo pensi “Io riuscirò ad arrivare lo stesso dove voglio senza sottomettermi”. E ci provi, ti dedichi con tutte le tue forze e capacità che sai e vedi essere di gran lunga superiori rispetto a quelle di tanti tuoi colleghi. Poi ti accorgi che, per quanto ti sforzi, finché non starai alle regole del loro gioco, non ti concederanno mai di realizzarti, di dare ciò che spetterebbe alla tua bravura, di riconoscerti abile e capace. Te lo fanno capire con risposte formali accompagnate da sorrisetti ammiccanti dietro i quali si cela il vero significato sotteso. Sguardi indagatori che domandano disponibilità sessuale, sopratutto se sei un “bel marocchino”, un qualcosa di esotico ai loro occhi, appetibile.

E quindi che fai? Tieni duro. Poi piano piano ti domanti “Fino a quando riuscirò a resistere?”. Allora, piano piano, inizi a pensare: “Basterà farlo una volta sola e poi la strada sarà libera davanti a te!”. 

Senza accondiscendere, col passare del tempo, la situazione e le ingiustizie giornaliere si sommano, il tuo stipendio non basta mai, i tuoi colleghi e superiori ti rubano le idee, le fanno proprie e li vedi trionfare con i tuoi meriti. Quindi arriva la rabbia, tanta e poi una notte, dopo la giornata più dura di sempre, vai a festeggiare con i colleghi un qualcosa che non sai nemmeno tu cosa. Cerchi di svagarti ma capita l'occasione che mai avresti immaginato e tu cedi. Ti concedi Mamma, e proprio alla persona che per ultima avresti pensato e voluto.

Il resto sono lacrime sul cuscino per tutta la notte e una gran voglia di morire e di non essere mai nato.

Alla mattina ti svegli promettendo a te stesso che non succederà mai più. Ma è successo e, cosa peggiore, non è più un segreto e diventa ricatto.

Apri gli occhi e l'incubo dei sogni si è semplicemente trasferito nella realtà. Ti muovi per casa come un zombi, come se nulla ti appartenesse, come se tu non appartenessi più a te stesso. Ed è così, non ti riconosci più e non sai quanto sia logorante perdere la fiducia in se stessi e uccidere la propria morale.

Come se non bastasse esci di casa con il volto ridotto uno schifo e la prima volante della polizia che ti vede si affianca, il poliziotto scende e ti chiede i documenti: per forza sei un marocchino! Mamma, sai, questo vuol dire molto da queste parti nonostante quello che ci ha sempre raccontato zia Asiya.

Dopo una notte di interrogatori con me stesso si mettono anche i poliziotti a far domande, stupide quanto volgari ed allusive e non ho la forza nemmeno di fare la voce grossa perché ormai mi sento colpevole, e lo sono. Rimango a testa bassa sussurrando le risposte, dicendo loro che sono stato male di stomaco per tutta la notte ma devo andare al lavoro. I poliziotti pensano che sia un drogato, magari uno spacciatore, per forza sono marocchino! Ma poi il mio italiano ormai quasi perfetto, meglio forse del loro, credo li abbia convinti. Scrivono su un foglio qualcosa, mi restituiscono il permesso di soggiorno e se ne vanno.

Arrivi in ufficio, non sai se sei tu a pensarlo o è reale ma senti un'aria diversa: i colleghi ti guardano in un altro, fastidioso modo. Probabilmente già tutti sanno. Io forse mi dovrei sentire meglio accolto ora, invece sento l'odio montarmi dentro perché loro sanno ciò che vorrei dimenticare. I loro sguardi allusivi sono la memoria che vorrei cancellare.

Passa qualche tempo, qualcosa mi viene concesso in più al lavoro, mi danno anche un telefono aziendale, ed io sento mentre lo afferro che è l'inizio della mia fine.

Aumentano le chiamate nell'ufficio del capo, con lui ora il lavoro passa in secondo piano. Adesso per lui è più importante flirtare. 

Sono ancora frastornato dalla prima volta ma questo a lui non interessa. Così succede di nuovo e questa volta al cuore sembra fare meno male. Invece tra le mura di casa il dolore trova il suo acuto, dilaniante penetra affamando la coscienza di risposte che non sono in grado di dare perché non mi riconosco più, non sono più la persona che conoscevo fino a pochi giorni fa, la coscienza di Shafir Hecman Sauir non mi appartiene più.

Tocco nuovamente un fondo più profondo del precedente ma ritrovo la forza per decidere che non succederà più: mai più abbasserò la testa per fare carriera.

Così la volta successiva che si ripropone la solita situazione fatta di allusioni e inviti a rapporti sessuali dico no e me ne vado scocciato, col cuore in subbuglio, sudando freddo e con un grande sorriso stampato sulle labbra e dentro me. La vita mi sembra nuovamente bella ed io mi sento libero e non credo più che ci sia solo male al mondo. Sono fiducioso che in altri luoghi otterrò il mio giusto spazio.

Invece quattro giorni fa il mio capo mi chiama a colloquio e mi licenzia come se fossi un ladro, senza darmi spiegazioni, senza nemmeno alzare la testa dalla scrivania per dirmelo in faccia.

Mi faccio nuovamente forza e decido che potrei denunciarlo e fargli causa e non bado nemmeno ai bambini che mi inseguono come al solito lungo il porticato, sulle scale sfottendomi e continuando a domandare “Ma tu è vero che sei una donna?” “Andatelo a chiedere a vostro padre” gli rispondo e questi scappano via a nascondersi ridendo.

Sono veramente deciso stavolta. Sono anche convinto che sia giusto dirlo a Paolo e che lui capirà il mio errore e mi starà vicino. Non siamo proprio una coppia fissa e questo credo renderà le cose ancora più facili. Invece, appena mi siedo sul divano con Paolo e gli racconto cosa è successo, lui si imbufalisce inveendo nei miei confronti, mi insulta ed esce di casa sbattendo la porta rimandandomi nello “schifoso paese dal quale vieni!”.

Cado nel silenzio. Mi rimane solo l'aria che inspiro perché respirare è un atto involontario. Non sono più nulla, non sono nemmeno più solo perché anche il me stesso resuscitato stavolta mi ha abbandonato; e stavolta sarà per sempre.

Prendo l'auto e vado dove sono ora Mamma, a Porto Venere: l'unico luogo che in questo sfacelo riesce a darmi un'accezione lontana di felicità. Ho deciso di morire. Non riuscirei mai a riaccettarmi come persona, e non voglio nemmeno farlo. Certe ingiustizie, certe umiliazioni ti si cuciono addosso togliendoti la felicità futura, ti fanno perdere irrimediabilmente la fiducia nelle persone. Uno dentro sé certe cose le sente.

Ho deciso di morire così Madre, affogandomi in un mare che ho sempre amato guardando da lontano un'architettura bellissima, nobile e antica, di un mondo umano che oggi non credo ci sia più ma che tanto vorrei; e voglio morire proprio osservando quel porto sul quale mi sono innamorato per la prima volta.

Non ho più la forza per risalire, il mio corpo è stanco, ma più di tutti lo è il mio cuore. Ho sofferto talmente tanto che non ho più la fantasia per immaginarmi un futuro migliore. Ho dato ascolto a troppi pregiudizi e mi sono prostituito per i miei sogni. Ho oltrepassato i confini della mia etica, ho frantumato il mio orgoglio e non esiste nulla in grado di aggiustarlo. Sento che le mie possibilità sono finite.

Ti saluto Madre. Vi stringo tutti quanti in un abbraccio infinito, vi amo. Non odiatemi per il dispiacere che vi darò, pensate solo che è l'unica via di uscita che ho dalla mia sofferenza, ed io ne sono felice. Sono contento di essere stato vostro figlio, e finché ero tra voi, sono stato vivo.

Vostro per sempre.

Shafir.

 

 

Questa è la lettera che ci ha lasciato tuo figlio Shafir. 

Oggi finalmente ho trovato la forza per raccogliere le sue cose e svuotare casa sua. Non rientrerò settimana prossima. Mi fermo ancora da Asiya per qualche giorno, non so quanti. Sono troppo stanca, ho troppo dolore da smaltire. Sento di dover rimanere sola.

Ti chiamo presto.

 

Shamira

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