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IL SUONO DEI RICORDI

 

Luigi danzava, tra i ciottoli imprigionati dai fili d'erba umida delle piogge di maggio. Lo tenevo per mano, stringendo le dita rugose del tempo, come sempre; sapevo essere inutile quel contatto giuda: i suoi occhi, anche se ciechi, vedevano perfettamente. Non saprei dire come ciò potesse accadere; accadeva, e il nostro era puro contatto di unione umana, non di aiuto. La mia era la mano della nipote che avrebbe avuto, se la moglie non fosse morta portando con sé, nel suo grembo già gonfio, il loro figlio.

Ricordo perfettamente la bellezza e il profumo di primavera che riempiva tutta la piana quella domenica mattina, quando, fuggita dalla messa e dalla morsa di mia madre, perdendomi saltellando sopra il ciottolato racchiuso dalle antiche mura, le mie orecchie sbatterono rapite contro una melodia di note che mi arrestò. 

Proveniva da via Mattiassi, a quell'ora troppo ombrosa e buia per la mia paura; ma la voglia di scoprire quale casa racchiudesse il violino che suonava fu più forte dei miei timori. Guardavo attenta davanti a me camminando con le braccia aperte, provando a toccare entrambi i muri, perché volevo diventare grande subito, come mia sorella Eugenia; ma non ci riuscivo, nemmeno usando il sacchetto del pane che tenevo con la destra. Il vigore delle note aumentava di pari passo all'emozione dentro me. Rallentai facendomi silenziosa. Dalla finestra aperta sfuggiva, intensa, la musica: mi abbassai gattoni, fino a sedermi, ginocchia raccolte, sotto al davanzale. Ascoltavo, immaginando una fata tutta immersa in un vestito di seta chiara, fluttuante su di lei, nel vento della melodia, danzare leggera, avvolta dalla polvere indorata dall'unico fascio di luce che penetrava dentro la stanza, proprio dove la mia vista non osava andare.

Avevo chiusi gli occhi, mi pareva di percepire tutto ciò che mi circondava come più profondo, allargato, labile, che i muri non fossero più così duri mentre continuava il bel canto di corde. Nemmeno sapevo come era fatto un violino, ma sapevo che quello era il suo suono.

Ascoltavo tutta felice, tenendomi le ginocchia vicino al petto, dondolandomi un poco. Rapida la musica iniziò a scemare di volume, e prima della sua fine una vociona di uomo disse:

– E tu che fai lì sotto?

Che paura presi! Mi voltai verso l'alto e vidi un volto dal sorriso enorme, incorniciato da due guance cadenti, spuntare dal buio. Gli occhi del vecchio, che non vidi perché nascosti da impenetrabili occhiali da sole, li sentivo sorridermi. Non so per quale motivo ma presi paura, saltai rapida in piedi fuggendo via, senza respirare né voltarmi. Trafelata e ansimante mi scontrai proprio contro la gonna generosa di mia madre, mentre usciva assieme ad una marea di altre donne della chiesa.

– Giusto te cercavo! Che fine hai fatto? Almeno il pane lo hai preso?

Il pane!

Mio Dio! Dove lo avevo lasciato?

Panico. Lo avevo perso, abbandonato involontariamente ai piedi della finestra, credo. Sono certa che ebbi sul volto un'espressione così disperata che, stranamente, mia madre non mi sgridò, ma mi prese per mano, salutando le sue conoscenti, allontanandosi un poco in disparte e, chinandosi verso me, mi domandò se lo avessi comprato.

Non fu facile raccontargli cosa era successo. Nulla avevo fatto di male, ma l'avventurarmi dentro la via buia alla ricerca del violino mi pareva una disobbedienza. Confessai tutto nel totale imbarazzo col timore che qualche passante udisse le mia disavventura. Mia madre non si arrabbiò. Quando levai gli occhi verso lei, certa di incontrare nei suoi le vampe del castigo, mi accolse un tenero sorriso che mi disorientò. Sotto la sua stretta ci avviammo a ritroso e, mentre camminavamo lente, mi raccontò chi fosse il signor Luigi e la sua storia. 

Il vecchio suonatore era stato per anni il maestro di musica presso le scuole medie, la guerra si prese i suoi occhi; tornato dal fronte non lo presero più nell'insegnamento perché non poteva più compilare gli spazi delle pagelle, nonostante sapesse scrivere perfettamente e suonare meglio di prima. Così, un poco con la pensione di invalido di guerra, un po' con le lezioni private di musica, si fece la sua vita.

Trovammo il pane appoggiato sopra il davanzale, si fece incontro Luigi salutandoci e attaccando da subito parola con mia madre, pieno di mille sorrisi, delicato nella voce, discutendo con un'eleganza mai più sentita tanto che pareva il violino suonasse ancora. Mi sembrò veramente strano quel vecchio che muoveva la testa ciondoloni, ogni tanto mi osservava facendomi paura perché non capivo come sempre sapesse dove io fossi nonostante i miei continui spostamenti attorno alla gonna di mia madre. Ci regalò dei biscotti che diceva di aver fatto lui; a me pareva impossibile questo: io che ci vedevo benissimo combinavo sempre dei gran pasticci quando provavo ad aiutare mamma in cucina.

Ci salutò, a me con una carezza.

– Ma hai gli occhi azzurri!? – disse immediato.

Mi pietrificai. Guardai mamma, che rideva senza suono. Io, sconvolta: allora ci vedeva!

Era per me un mago, un essere troppo diverso dalle persone che fin lì avevo conosciuto, che frequentavano la cascina nostra, così magnetico in tutto: nell'aspetto, nella voce, negli argomenti, nei modi.

Lo lasciammo. Io mi girai dopo i primi passi e lo vidi sprofondare nel buio della stanza.

Stavamo giocando a nasconderci quel pomeriggio, io travestita di lavanda, celata dietro il cespuglio più bello, col naso che mi si accartocciava tutto non ancora abituato al profumo intenso, osservavo da lontano Mattia alla ricerca di noi tutti, quando vidi camminare, lungo il dorso del Tagliamento, un vecchio, che mi parve essere Luigi. Lo vedevo procedere oscillando un ombrello nero davanti a sé. Come se il mio cuore lo stesse aspettando partii, correndogli rapida incontro. Il vento fischiava nelle orecchie portando la voce di Mattia che mi aveva scoperta; ma a me non importava, volevo solo che fosse Luigi.

Ed era lui. Stranamente non ebbi nessun timore di parlargli, incominciai subito, e fu come se ci conoscessimo da sempre, quasi egli fosse mio coetaneo tanto lo sentivo vicino. Camminammo per tutto il pomeriggio. Involontariamente ad un certo punto gli presi la mano che teneva l'ombrello, lui lo passò nell'altra, e così continuammo: ero diventata la sua guida e l'essergli utile mi rendeva orgogliosa. Il suo volto diceva che era felice. Crescendo capii che il lasciarsi trasportare era la sua vera indole.

Da quel giorno non passò pomeriggio d'estate che non passeggiassimo assieme, nei prati, lungo il fiume, facendo anche il bagno, io, Luigi immergeva solo i piedi sorridendo a crepapelle per il solletico che i liscissimi bianchi ciottoli del fiume gli facevano.

Così, in un'innocenza della quale avverto costantemente la mancanza, diventammo qualcosa al di là dell'amicizia, prima dell'amore, oltre un rapporto famigliare. Non passava incontro senza che Luigi mi raccontasse, con tutta la sua capacità affabulatoria, una storia che avesse a che fare con Venzone, con i suoi abitanti; come quando mi raccontava i suoi viaggi di corriere postale, lungo tutta la regione, passando per le molte valli e i tantissimi paesi limitrofi, svelandomi come al di là di questa piana gli abitanti parlassero altre lingue diversissime nonostante la vicinanza; lingue uniche, fatte di vita. Io sprofondavo nella fantasia immaginandomi uomini molto diversi da noi, che i nostri monti fossero insuperabili e per questo io non li avevo ancora incontrati. Infatti ebbi paura quando Luigi mi propose di portarlo in cima al monte Bedede. Me lo chiese serioso, ad intendere che non era cosa da poco, che lui quelle strade non le ricordava, ma che voleva ancora sentire il “suo” vento del nord carezzargli il volto, prima di morire. Allora non sapevo nemmeno cosa fosse la morte, mi sembrava una cosa brutta, che poi passa.

Non ci pensai nemmeno nonostante avessi un groppo in gola: andammo il giorno successivo. Non riuscii a dormire quella notte. L'indomani ci ritrovammo fuori dal Duomo che bianco di sole accecava nel dopo pranzo di quel pomeriggio senza nuvole. Né del tempo né della distanza che scorreva via lungo il sentiero mi accorsi, tanto risi per i continui racconti di Luigi. I miei preferiti erano quelli sulle Mummie: diceva che erano solite uscire la notte e fare scherzi ai compaesani che di giorno andavano fuori dalle regole, in tutti i sensi; che queste si infilavano nel letto al posto della moglie, che facevano scherzi ai ragazzini che non aiutavano i vecchi, che trasformavano in topi quei cani che facevano pipì fuori dalla chiesa. Per ogni Venzonese c'era un aneddoto sempre più bizzarro; finché arrivammo in cima, e qui, per l'unica volta vidi Luigi commuoversi dietro gli occhiali scuri. Mi parve magico per come fece, da solo, gli ultimi passi. Si fermò, voltandosi dove lui sapeva essere il suo paese; ed io sono certa che in quegli attimi lo vide. Si fermò il tempo nonostante il vento ne scompigliasse i capelli e rimase lì, pensando alla vita.

Per molto stette immobile. Mangiammo poi le squisite mele nostre che portai. Luigi maneggiava rapido il coltello meglio di uno con gli occhi buoni.

Mentre i profumi del frutto si disperdevano iniziò a raccontarmi di come fu dura la guerra, cercando di spiegarmi cosa fosse: mi passò l'appetito. E ancora del terremoto, di quando venne distruggendo quasi tutto. Io non potevo credere fosse successo davvero, perché ora, là sotto, era tutto così splendido, ma la sua tristezza, mai vista prima, mi diceva che era vero.

Nel silenzio di un attimo tirò fuori dalla bisaccia il violino e si mise subito a suonare. Io impazzii alla sola vista dello strumento. Le mani nodose si mossero rapide e per me iniziò il paradiso perché suonò le stesse canzoni che riempiono la festa della zucca. Mi misi subito a danzare, non che lo sapessi fare, ma i piedi mi fremevano, generando uno sfogo compulso, irrefrenabile. Il vento gonfiava ancora di più la musica, ed io non pesavo nulla, e il piede di Luigi che batteva sulla roccia era la mia guida. Lo afferrai poi per un braccio, alzandolo, e, abbracciata alla sua vita ci muovevamo ondeggiando come la superficie del Tagliamento, spinta dal nostro stesso vento, ed io ridevo, ridevo felice respirando il sapore di un nonno ritrovato. 

Era tardi ma non mi preoccupavo, convinta che mia madre avesse sentito il violino del monte, ma non fu così.

Luigi cenò da noi quella sera, quietando le acque con i miei genitori per il mio tardo rientro. Come ero felice!

Prima e dopo il caffè Luigi mi costrinse a piegare a tubo dei bigliettini sui quali lui aveva scritto delle strane frasi che non tutte capivo. Tanti ne feci in poco tempo che le mani mi dolevano tutte. Poi mi chiese di riaccompagnarlo a casa. Lungo il percorso ci mettemmo a infilare i bigliettini nelle fessure dei muri che mostravano i vecchi mattoni delle Porte, delle case. Mi disse che dovevamo farlo perché quelle pietre parlavano: mi sembrava di vivere in un sogno per tutta la felicità che pareva non avere fine, come quel giorno.

– Senti che bello il suono della notte antica! – disse. Solo da grande conobbi quel significato, camminandoti.

L'indomani mattina in paese non si parlava d'altro. Quella non fu l'unica volta che facemmo il gioco dei mattoni scriventi.

Nei mesi a venire leggemmo e scrivemmo molto assieme perché una delle sue mani aveva dimenticato la strada delle note, ed anche una gamba si era guastata. Fu in quei giorni che mi innamorai della scrittura.

Così passavo le mie giornate senza sapere che sarebbero state le più belle della mia vita. Era una mattina di metà autunno quando, rientrando a casa, mia madre stentò a voltarsi, poi lo fece, rapida, venendo a me, inginocchiandosi e abbracciandomi già triste; e lì sentii che non avrei mai più toccato Luigi.

Ora, che il “lavoro” mi ha portato lontano dalla tua bellezza, ritorno, accarezzo le pietre delle antiche mura e sento tutta la dolcezza dei sorrisi di Luigi. Faccio su e giù per le tue strade, la notte, e in questa suggestione che solo tu mi dai rivivo ricordi assopiti, momenti di vita di quando correvo scalza e tu eri il solo mio purissimo mondo. E anche ora esito ad alzare gli occhi al monte, per non uccidere la convinzione che Luigi sia sempre là sopra ad aspettarmi.

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